Il mondo osserva con preoccupazione la diffusione del coronavirus Sars-CoV-2. In tutto il mondo scienziati e centri di laboratori studiano per trovare un vaccino e contromisure efficaci. È di fondamentale importanza seguire tutte le indicazioni del governo e continuare, senza demordere, ad usare tutte le precauzioni previste.
Ciononostante, in un clima di preoccupazione ed ansia collettiva (che il più delle volte causa maggiori danni rispetto al virus), rischia di passare inosservato il vero problema che l’umanità dovrà affrontare: quello ambientale.
Rispetto all’inquinamento atmosferico, in modo particolare sulle cd particelle di particolato, evidenziamo uno studio presso la TH Chan School of Public Health dell’Università di Harvard. L’analisi ha dimostrato che nelle aree ove vi è un’alta percentuale di particelle di particolato la diffusione del virus ha causato un tasso di mortalità superiore rispetto ad altre zone. Francesca Dominici, coautrice di questo studio, ha affermato che tali aree sottoposte ad esame registreranno un alto livello di ricoveri, di infezioni da COVID – 19 e quindi di decessi. Dallo studio emerge che se alcune regioni ove la densità demografica è assai elevata avessero perseguito politiche di abbassamento dell’inquinamento, es. Manhattan, ad oggi avremmo registrato (per lo più) 248 decessi in meno al giorno. La ricercatrice ha affermato che, luoghi come la Central Valley della California o la contea di Cuyahoga, nell’Ohio, potrebbero dover preparare casi più gravi di Covid-19. Risultati che confermano l’importanza di tenere sotto controllo l’inquinamento nelle città. Il New York Times, invece, ha riportato altre ricerche in base alle quali l’esposizione al particolato fine mette le persone ad alto rischio di cancro ai polmoni, infarti, ictus e persino morte prematura. Nel 2003, il Dr. Zuo-Feng Zhang, preside associato per la ricerca presso la University of California, Los Angeles, Fielding School of Public Health, ha scoperto che i pazienti con Sars nelle parti più inquinate della Cina avevano il doppio delle probabilità di morire di malattia come quelli in luoghi a basso inquinamento atmosferico.
Successiva doverosa analisi riguarda l’impatto dello scioglimento dei ghiacciai nei prossimi anni causato dai vari cambiamenti climatici, quale conseguenza dell’estesa industrializzazione del nostro pianeta negli ultimi 200 anni.
Le cause, quindi, non sono naturali ma dovute all’uomo e al suo comportamento.
I primi effetti si sono riscontrati già agli inizi del XX secolo per poi peggiorare con il progressivo aumento dell’industrializzazione.
La temperatura media della superficie terrestre è aumentata di 0,7 ± 0,2 °C durante il XX secolo. La maggior parte degli incrementi di temperatura è stata osservata a partire dalla metà del XX secolo con la distribuzione del riscaldamento climatico che non è uniforme su tutto il globo, ma presenta un picco massimo nell’emisfero settentrionale a partire dalle medie e alte latitudini fino al polo nord, più accentuato sulla terraferma che sui mari e oceani (es. territorio siberiano e canadese) e un livello minore nell’emisfero sud, circondato dagli oceani, con la zona del polo sud con un’opposta tendenza al raffreddamento (cfr. quarto rapporto del Intergovernmental Panel on Climate Change ‘IPCC’ del 2007).
Le principali conseguenze dello scioglimento dei ghiacciai sono:
– L’aumento del volume dell’acqua degli oceani: il livello dell’acqua, infatti, sale, coprendo buona parte delle aree continentali che tra alcuni anni potrebbero venire completamente sommerse;
– Stravolgimento del clima: cambiano gli equilibri delle strutture cicloniche e anticicloniche;
– Squilibrio della catena alimentare: gli habitat di molte specie marine e terrestri cambia e risulterà sempre più complesso mantenere il ciclo naturale.
L’emisfero settentrionale del nostro pianeta ne è la prova emblematica.
Nel corso degli ultimi 40 anni, la superficie dei ghiacciai artici si è ridotta drasticamente ed il rischio è tale che tra qualche anno quella che era una vastissima distesa di ghiaccio potrebbe trasformarsi in un enorme lago salato.
Non è semplicemente il Polo Nord a subire stravolgimenti naturali.
Recentemente un ricercatore brasiliano, Carlos Schaefer, ha annunciato che nella zona meridionale del nostro emisfero, in Antartide, la temperatura ha superato i 20 gradi.
Lo studioso ha registrato il dato nella stagione di monitoraggio sulla “Seymour Island” ed ha, altresì, evidenziato come un icerberg di oltre 300 chilometri quadrati, vasto pressappoco quanto Malta, si sia staccato dal ghiacciaio di Pine Island in Antartide, generando immensi frammenti che si sono dispersi in mare: lo documentano le immagini riprese dallo spazio dalla coppia di satelliti dell’ESA (Agenzia spaziale europea). Altro esempio è il ghiacciaio di Denman, nell’Antartide orientale, che potrebbe affrontare nei prossimi anni un rapido collasso. Con un fronte di 20 km questo lento flusso di ghiaccio negli ultimi 22 anni si è ritirato di circa 5 km. Se questo processo dovesse accelerare, l’acqua calda dell’oceano potrebbe velocizzare il processo di fusione, innalzando così il livello del mare di 1 metro e mezzo: “Stiamo assistendo alla tendenza al riscaldamento in molti dei siti che stiamo monitorando, ma non abbiamo mai visto nulla di simile”, ha affermato Schaefer, esperto in materia, che sta lavorando su Terranta.
Secondo un altro recentissimo studio, presso l’università del New South Wales a Sydney, si è notato che l’attuale processo di surriscaldamento delle acque del mare presenta delle analogie con quello dell’ultimo periodo interglaciale. Infatti, ben 120 mila anni fa, l’aumento di soli 2 gradi della temperatura del nostro pianeta ha determinato un aumento del volume dei mari che è variato fra i 6 e i 9 metri, provocando impressionanti cambiamenti climatici.
Ci poniamo e vi poniamo, dunque, una domanda: cosa stiamo facendo per la nostra Terra?
Ai posteri l’ardua sentenza.
FONTI: Lastampa , ecobnb, the vision, wired