di Gianluca Natale
La morte di George Floyd ha scosso la sensibilità di milioni di persone, tanto da sfociare, in alcune zone degli Stati Uniti, in manifestazioni violente e criminali.
Floyd era un addetto alla sicurezza di un ristorante chiuso causa COVID – 19, ucciso perché sospettato di detenere una banconota falsa di 20 dollari per un eventuale acquisto di sigarette. La drammaticità del video della sua morte è data dal suo assassinio, ovvero, un agente di polizia preme sul suo collo con il proprio ginocchio, per 8 minuti e 46 secondi, ammazzandolo. Non è tutto. A rendere ancor più drammatica la vicenda è l’inerzia degli altri agenti di polizia del dipartimento distrettuale.
In questa sede non vogliamo entrare nel merito della vicenda o analizzare le conseguenze giudiziarie delle parti lese o dei responsabili bensì proveremo ad inquadrare il contesto sociale che ha innescato la morte di Floyd.
Infatti, l’accaduto, che è solo la punta dell’iceberg di altri episodi simili, è stata la miccia che ha innescato una serie di azioni civili, anche violente, in gran parte del Paese. I manifestanti hanno saccheggiato negozi, vandalizzato automobili di privati e dato alle fiamme il commissariato di polizia locale.
Negli ultimi giorni, sono diverse le sparatorie nella “Chop zone” a Seattle, vicino al Congresso, tra cui ha trovato la morte un 16 enne.
Come abbiamo accennato non è il primo caso, dal 2015 sono più di mille le persone afroamericane uccise dalla polizia. Sorgono spontanee alcune domande.
Quali sono i limiti di intervento della polizia americana? Perché un paese, come quello degli Stati Uniti, patria degli immigrati, madre dell’interculturalità ha un tasso così elevato di episodi del genere? Possiamo parlare di una cultura razzista dilagante o semplicemente riferita a singoli episodi?
È ovvio che non possiamo vivere in assenza di un sistema di sicurezza, è necessario un controllo delle forze dell’ordine che garantiscano il godimento delle libertà costituzionali, in America come nel resto del mondo. Le comunità sono obbligate a proibire atti di criminalità e di violazione di legge, anche con l’uso della forza. Ma quali i limiti nel mentre si effettua un arresto? La polizia in alcuni casi si eleva ad artefice di giustizia e molti giovani si arruolano per questo motivo. Vedono la divisa come unico scopo di vita, il solo modo per essere dalla parte dei buoni e dei giusti. Ma è davvero così? In una società dove l’uso e la vendita delle armi è consentito, con non molte restrizioni rispetto ai paesi europei, la cultura della violenza e/o dell’espressione della propria forza viene maggiormente stimolata e quindi non stupisce l’avverarsi di episodi del genere. La comparsa dei social network, l’uso degli smartphone e le varie tecnologie hanno portato alla ribalta episodi di particolare violenza e razzismo a danno delle comunità afroamericane. In tutto ciò non vi è decoro e giustizia, solo amarezza.
Negli Stati Uniti ci sono 120,5 pistole ogni 100 abitanti ha dichiarato il Washington post, l’addestramento delle reclute si basa su video di agenti che vengono uccisi o percossi mentre sono disarmati o colti impreparati. La principale regola di addestramento è l’attacco.
Floyd è stato vittima del razzismo, delle disuguaglianze neoliberiste, di una polizia volutamente violenta e di una generale cultura delle armi; anche se oggi è più che giusto manifestare contro il razzismo, cercare di superare questa ignobile discriminazione, rivendicare l’eguaglianza come persone di bianchi e neri, pure sarebbe semplicistico ridurre la morte di Floyd a un gesto unicamente razzista. Non lo è. Il problema è più grande, di cui il razzismo è espressione: è la disuguaglianza sociale e culturale.
Bryan Stevenson, avvocato per i diritti civili, è anche fondatore di Equal Justice Initiative, ha più volte ribadito che in America il tema in oggetto non è stato mai realmente trattato; da due secoli e mezzo i neri sono ridotti in schiavitù.
Il razzismo, come avviene anche nelle nostre realtà, è strutturale ed istituzionale. Molto spesso, noi in primis, accettiamo forme di sfruttamento che pur non qualificandosi come atteggiamenti razzisti in realtà ledono la dignità umana, la violentano. Suzanne Plihcik, community organiser che lavora negli Usa con comunità e organizzazioni a livello locale e nazionale per l’uguaglianza razziale spiega questo concetto :“il razzismo avviene senza la mia intenzione”. Tutti ci sentiamo sollevati di un fenomeno solo perché non ne siamo gli artefici, ma in realtà siamo complici. Dal razzismo allo sfruttamento lavorativo il passo è breve. Per capirci meglio: l’europeo o l’americano non accetta retrocessioni lavorative o salariali, ha come parametro di riferimento un mondo occidentale evoluto. L’immigrato non ha la possibilità di sognare nulla del genere. È un fantasma sradicato dalla sua terra che, fatta l’esperienza di non poter vivere come un calciatore milionario della nazionale, gli interessa semplicemente sopravvivere. Non ambisce a vestiti firmati, ad una vacanza, ad una casa singola o di proprietà e spesso neppure ad una famiglia. Si accontenta. Per il “nero”, tutto sommato, meglio sopravvivere in questo modo.
A fronte di tutto ciò, qual è il ruolo delle Istituzioni e della cittadinanza? Ad oggi poco è stato fatto e poco è in programma.
Certo, l’Europa si differenzia nettamente dall’impostazione americana e possiamo andarne più che fieri, ciononostante è fondamentale continuare a parlare di razzismo, di disuguaglianze tra le classi sociali se vogliamo tutelare le future generazioni.