C’è molta confusione sull’endometriosi: una patologia che colpisce 3 milioni di donne in Italia e ben 176 milioni nel mondo, con diagnosi conclamata, senza contare le diagnosi mancate o tardive per cui il numero può considerarsi molto più elevato.
Una patologia diffusa ma poco conosciuta, considerata per lungo tempo un vero e proprio tabù. Le donne hanno sempre avuto timore di parlarne, per non affrontare l’argomento del loro ciclo mestruale, vittime di un retaggio di credenze di epoche passate che ha portato molte di loro a vivere in solitudine la malattia, sopportando il peso della sofferenza fisica, della incomprensione e le gravi ripercussioni emotive e psicologiche. Solo di recente, si sono accesi i riflettori mediatici sull’endometriosi, complice anche l’outing di numerose donne dello spettacolo.
Ma che cos’è l’endometriosi? È una malattia ginecologica causata da ectopia, ovvero dall’impianto di cellule endometriali (ossia cellule provenienti dall’endometrio, il tessuto che riveste la parete interna dell’utero) normalmente presenti nella cavità uterina, in organi diversi dall’utero, principalmente ovaie, tube, vagina e intestino.
Il dolore, lancinante, colpisce i lati del bacino, durante le mestruazioni e può colpire anche nelle altre fasi del ciclo mestruale. Durante lo sport, le passeggiate, le normali attività quotidiane ma anche a riposo, durante la notte, spesso costringe ad un’insonnia forzata. Diarrea o stitichezza, affaticamento cronico, nausea e vomito, cefalea, irregolarità nel ciclo mestruale, menorragia (mestruazione abbondante) metrorragia (perdita di sangue al di fuori della mestruazione) e ipoglicemia sono altri sintomi piuttosto frequenti; e poi c’è, forse, quello più drammatico: l’infertilità.
Un quadro clinico disastroso quello dell’endometriosi, che sembrerebbe poter allertare ogni ambito sanitario che vi si trovi al cospetto, ma che purtroppo tutt’oggi pare fare il suo corso nel parziale disinteresse degli organi competenti.
Una donna su 10, questo è il dato ufficiale, è colpita da endometriosi; tuttavia, non è assurdo ritenerlo un dato falsato, in quanto, soltanto fino ai primi anni del 2000, la gran parte delle donne che lamentavano questi sintomi, si ritrovava a fare i conti con la negligenza e il disinteresse. La sofferenza si attribuiva ad una scarsa sopportazione del dolore tipica della “debolezza femminile”, o peggio, a una condizione isterica: questo era il genere di risposte indirizzate a un numero inquantificabile di donne. Solamente negli ultimi dieci anni si sono iniziati a compiere i primi passi per riconoscere come tangibile la patologia, integrandone anche qualche possibile enunciazione di fattori di rischio.
Si è trattato di disinteresse e negligenza anche nel caso di Maria Amodio, una ragazza del nostro territorio che ha dovuto affrontare inizialmente una situazione di frustrazione ed incertezza e che ogni giorno combatte la sfida di una condizione clinica tutt’oggi ancora troppo sfumata e sconosciuta.
«Ricordo un’adolescenza fatta di svenimenti, dolori, corse al pronto soccorso e passeggiate che si trasformavano in dolori acuti. Passavo la notte a contorcermi dal dolore e a sentirmi dire al pronto soccorso che avevo la soglia del dolore bassa perché non sopportavo un po’ di ciclo. Mia madre mi diceva sempre: “Sei giovane ma sei proprio flaccida.” I ginecologi dicevano la stessa cosa. Non dormivo più, non vivevo più, non lavoravo serenamente. Pensavo di morire dai dolori e di avere una malattia mortale nascosta e che nessuno la vedesse.»
Queste le parole di Maria, la quale, vive una patologia che probabilmente l’ha sempre afflitta e l’ha portata ad essere tacciata di essere debole o flaccida, nonostante un quadro clinico che avrebbe messo in ginocchio chiunque.
Dopo una vita di dolori senza risposte, solamente a 20 anni conosceva il nome della patologia che la affliggeva.
«L’ottavo ginecologo, dove andai da sola, di nascosto, mi diede la sentenza. Finalmente i miei dolori avevano un nome: ENDOMETRIOSI. Non sapevo nemmeno cosa fosse.»
Maria racconta che da quel momento, raggiunta la prima meta cioè la diagnosi, è iniziato il suo percorso terapeutico.
«Da lì subii due interventi, uno a distanza di tre mesi dall’altro. Ma purtroppo era già al Quarto stadio avanzato. Avevo una cisti di 9 cm, infiltrata al retto, all’intestino, al nervo sciatico, tube e in più adenomiosi (presenza di ghiandole e stroma nella muscolatura uterina, n.d.r.). Ormai non ve lo spiego nemmeno il dolore.»
La sofferenza dovuta a questa patologia viene, talvolta, acuita dal desiderio di avere un bambino, ennesima drammatica alterazione clinica dell’endometriosi.
«A distanza di due anni, e informandomi bene, ho cercato di avere un figlio, che purtroppo non arrivava. Senza perdere tempo, sono dovuta ricorrere alla Procreazione Assistita a soli 25 anni.»
In questo aspetto si riversa tutto il dolore di un numero inquantificabile di donne, ingoiate in un Odissea di dolore fisico ma soprattutto emotivo, incarcerate in una condizione spesso senza nome, circondate dall’incomprensione e dal giudizio frettoloso di chi ritiene l’endometriosi un’ipotesi diagnostica fin troppo esotica.
La testimonianza di Maria è finalizzata a lanciare un appello alla classe medica, agli enti di formazione e a chi come lei si trova ad affrontare un percorso tortuoso, affinché si possa sensibilizzare sul tema, si possa fare informazione e trasmettere forza e speranza alle donne colpite dalla patologia.
«Non guarirò mai, posso solo peggiorare lentamente, ma in una cosa ho vinto io contro la maledetta: sono riuscita ad avere il mio miracolo, mio figlio. È dura conviverci ogni giorno, nelle semplici cose ti ritrovi a dover fare i salti mortali, ma andiamo avanti, consapevole che prima o poi dovrò rientrare in quella maledetta sala operatoria. Ma non molliamo. Siamo guerriere. Vogliamo solo essere ascoltate e non derise. Perché la nostra storia non è solo in queste quattro righe. C’è il dolore vero, il dolore cronico, fisico e mentale. L’ansia è la nostra migliore amica, ma andremo avanti. Sempre.»