di Francesco Galasso e Gennaro Cantiello
La domanda che ci siamo posti, almeno una volta, in questi mesi di emergenza è se fosse costituzionalmente corretta, o meglio, se si conciliasse perfettamente con la Costituzione, la decisione dello Stato italiano, tramite una decretazione di urgenza senza precedenti da quando è nata la Repubblica, di limitare i diritti inviolabili, a tutela del diritto alla salute ex art. 32 Costituzione.
Innanzitutto, c’è da precisare che la Costituzione non prevede una disciplina generale delle situazioni di emergenza. È però prevista la possibilità di limitare alcuni diritti costituzionali per ragioni di sanità o di incolumità pubblica purché siano decise con legge e riguardino categorie generali di cittadini.
Tenendo conto di questo quadro sia dalla dottrina sia dalla giurisprudenza è riconosciuto un particolare valore al diritto alla salute che la Costituzione definisce “fondamentale”.
Purtroppo, l’impatto epidemiologico del CoVid-19 in Italia ad inizio marzo, e poi in tutto il mondo, è stato devastante a tal punto che si è arrivati alla ufficializzazione di una situazione di pandemia.
Questo ha imposto al Governo italiano una massiccia produzione legislativa, sfociata ben presto in una copiosa emanazione di decreti governativi, rectius Decreti del Presidente del Consiglio dei ministri, per il contenimento di un contagio virologico sul territorio nazionale.
La domanda che sorge spontanea nella mente dei giuristi è, dunque, se i Decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri, emanati in via emergenziale per finalità di contenimento degli effetti da SARS-COV2 possano atteggiarsi al rango di atti di legge, essenziali e indispensabili per tutela della salute pubblica, o se, invece, appaia lecito interrogarsi non solo sulla loro opportunità politica, ma anche sulla loro legittimità giuridica.
Si necessita, in primo luogo, una breve ma puntuale analisi dello strumento principe utilizzato per la gestione dell’emergenza: il DPCM.
Il D.P.C.M. è un provvedimento emanato, in forma di decreto, dal Presidente del Consiglio dei ministri e che, al pari di ogni decreto ministeriale, ha natura amministrativa. In quanto atto amministrativo, non ha forza di legge e ha carattere di fonte normativa secondaria. Viene utilizzato, di norma, per dare attuazione a disposizioni di legge. Non è soggetto ad alcuna conversione da parte del Parlamento ed è inoltre sottratto, a seguito di eventuale sollevamento di questione di legittimità costituzionale, al vaglio della Corte costituzionale.
Nel nostro Ordinamento esistono però anche altri rimedi, che permettono al Governo, in presenza di determinati requisiti e ricorrendo precise condizioni, di adottare atti aventi forza di legge, provvedimenti capaci di abrogare norme di legge e di resistere all’abrogazione da parte di fonti di rango inferiore: si tratta dei decreti legislativi e dei decreti-legge, previsti e disciplinati, rispettivamente, dagli articoli 76 e 77 della Costituzione.
In virtù della situazione di estrema gravità e urgenza legata al particolare contesto pandemico-emergenziale, la figura del decreto-legge è quella che maggiormente si prestava alla complessità del momento, giacché esso è un provvedimento che il Governo può adottare in casi di necessità e urgenza, motu proprio, senza delegazione delle Camere, e sotto la sua responsabilità: il decreto legge è deliberato dal Consiglio dei Ministri ed emanato con Decreto del Presidente della Repubblica, entra in vigore il giorno stesso della pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale, che avviene immediatamente dopo la sua emanazione. Il decreto-legge reca, tuttavia, il carattere della provvisorietà, dal momento che ne è richiesta, entro 60 giorni, la conversione in legge da parte delle Camere. A differenza del D.P.C.M., il decreto-legge non sfugge, quindi, al vaglio del Parlamento e neppure all’eventuale successivo sindacato di legittimità da parte della Corte costituzionale.
Non è dunque immune da critiche la scelta del Governo, nello specifico del Presidente del Consiglio dei Ministri, di procedere con un uso massiccio dello strumento del DPCM, seppure ciascuno di essi fornito della necessaria copertura legislativa grazie a due decreti-legge (25 marzo 2020, n. 19 e 23 febbraio 2020, quest’ultimo peraltro abrogato, quasi in toto, dal primo).
La scelta è stata dettata, con ogni probabilità, in ragione dell’immediata approvazione e operatività, data l’estrema urgenza, dei provvedimenti in parola. Caratteri di tempestività e urgenza, però, propri anche del decreto-legge, di cui costituisce proprio la ratio.
I Decreti emanati hanno imposto importanti limitazioni a certe libertà fondamentali e diritti inviolabili previsti e tutelati al livello giuridico più alto; la Costituzione stessa, tuttavia, ammette anche la possibilità di restrizioni della libertà personale «nei soli casi e modi previsti dalla legge» (art. 13), oltre che limitazioni alla libertà di circolazione «per motivi di sanità o di sicurezza» (art. 16).
Va anche sottolineato che il D.P.C.M., in quanto atto di normazione secondaria, come evidenziato anche da illustri giuristi «ha una forza normativa debole, troppo debole per incidere su libertà costituzionali protette dalla riserva di legge della Costituzione».
Ulteriore dubbio sorge con riferimento alle sanzioni: le trasgressioni ai divieti comportano l’applicazione di pesanti sanzioni pecuniarie, oltre che detentive (anche se va precisato, in ordine a queste ultime, che il Decreto-legge n. 19 del 25 marzo 2020, se da una parte ha inasprito le sanzioni amministrative, dall’altra ha eliminato le sanzioni detentive) che non possono non essere qualificate come norme aventi una qualche valenza penale. Così ragionando, risulterebbe violato il principio costituzionale della riserva di legge in materia penale, in forza del quale nessuno può essere punito se non in base a una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso (articolo 25, secondo comma, della Costituzione). A ciò si potrebbe obiettare che il Codice penale punisce con l’arresto e l’ammenda «chiunque non osserva un provvedimento legalmente dato dall’Autorità per ragione di giustizia o di sicurezza pubblica, o d’ordine pubblico o d’igiene», e che, quindi, anche qui sussisterebbe la copertura di una fonte normativa primaria. La questione, come si vede, è di dubbia interpretazione.
L’emanazione di tali decreti, difatti, non ha permesso solo al Governo centrale di intervenire, bensì ha permesso anche alle Regioni e ai Comuni di adottare provvedimenti ancor più restrittivi sul proprio territorio di competenza.
È vero che gli interessi in gioco hanno rilievo costituzionale, però è anche vero che il principale impegno delle autorità Statali è stato quello di garantire la vita e la salute dei cittadini.
Quindi, da una situazione emergenziale, scaturisce una regola giuridico-costituzionale chiara, ossia, che il valore costituzionale del diritto alla salute (art. 32) prevale su ogni altro valore costituzionale. Pertanto, è più corretto parlare, non di bilanciamento di interessi costituzionali, ma di prevalenza del diritto alla salute su tutti gli altri; questo perché è naturalmente connesso con il diritto alla vita che è il bene supremo.
In considerazione delle riflessioni sopra esposte, la decisione di ricorrere ai DD.P.C.M. è stata una scelta che ben può esser definita di dubbia razionalità quanto agli aspetti giuridico-formali, discutibile sotto il profilo dell’opportunità giuridica (giacché il Governo avrebbe potuto ricorrere ai “più sicuri” decreti-legge).
Anche se il tiro, come detto, è stato in seguito corretto, ponendo rimedio, infatti, alle “manchevolezze” sostanziali dei DD.P.C.M con la cancellazione delle sanzioni penali e, sotto il profilo formale, coprendoli con un decreto-legge.
In conclusione, c’è da dire che non è un compito facile quello che lo Stato si è trovato ad affrontare, perché gli interessi in gioco sono tanti, tutti meritevoli di tutela e spesso in contrasto tra loro.
Uno Stato deve saper prevenire contesti di necessità come quello attuale. Non è la prima grande sfida che il mondo si trova a fronteggiare. Ad esso bisogna rivolgersi per pretendere che si impegni a garantire il diritto alla salute oggi e il diritto al lavoro domani. Se il lavoro è un diritto, è lo Stato che deve pensare alla sussistenza delle persone anche con interventi impegnativi e adeguati all’eccezionalità del momento.