Introduzione
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L’epoca in cui noi esseri umani avevamo la possibilità di servirci di risorse abbondanti è finita e già da molto tempo a causa dell’utilizzo incessante e negligente delle risorse.
Già dagli anni ‘70, con la crisi ambientale data della massificazione del prodotto, dall’utilizzo di materiali inquinanti e dall’obsolescenza programmata sul mercato, nasce l’esigenza da parte di industrie e progettisti, di pensare a nuove soluzioni di produzione sostenibili e che soprattutto riducano l’utilizzo della plastica, un materiale che da sempre ha permesso ai progettisti di sperimentare forme futuristiche, colori sgargianti e produzioni in tutti i settori: dall’automotive, ai piccoli utensili da cucina (e in generale per la vita quotidiana) ai mobili di arredo. La plastica in tutte le sue forme ha sempre trionfato per la sua economicità, leggerezza e libertà di espressione.
Vilèm Flusser, filosofo, scrittore e giornalista ceco, definisce la produzione industriale avanzata come “un diluvio esponenziale di non-cose” dove le non-cose sono gli oggetti prodotti senza un senso, in quantità enormi, pensati per morire molto presto (obsolescenza programmata) destinati a diventare rifiuti creando danni irrecuperabili all’ambiente.
Nuovi modi di vedere il progetto
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Per far fronte ai problemi della produzione inarrestabile di oggetti immobili, senza senso, privi di anima, freddi e spesso inutili, l’oggetto inizia ad essere pensat osecondo 3 aspetti che fanno riferimento alla produzione contemporanea:
– il riuso, che intende ridare una nuova destinazione a materiali e oggetti dando vita ad un sistema che oggi chiamiamo economia circolare;
– la smaterializzazione che fa riferimento all’evoluzione tecnologica e agli oggetti digitali e immateriali che eliminano completamente o in parte “il diluvio esponenziale di non-cose” di cui sopra.
– ed infine il biologico, una caratteristica attribuita sia agli oggetti che sono bioispirati e che riprendono le caratteristiche estetiche e comportamentali della natura sia ai materiali BIO-BASED ovvero quei materiali di origine vegetale e biologica, costituiti in parte o completamente da sostanze organiche: derivanti da piante, animali e microorganismi, i quali, escludono componenti provenienti da carbone o petrolio. Anche per quest’ultimo aspetto parliamo di materiali che rientrano nell’ottica dell’economia circolare, in quanto, riciclabili, compostabili e biodegradabili.
Materiali bio-based
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Con l’intento di approfondire il concetto di biologico e materiale bio-based possiamo far riferimento a dei casi-studio che fungono da esempio.
“La natura è il primo produttore di imballaggi al mondo: ogni buccia, guscio o pelle mira a proteggerne il contenuto” scrive Bruno Munari nel suo libro “Good Design” del 1997.
Partendo da questa citazione potremmo fare una riflessione sul tema dell’imballaggio, uno dei tanti argomenti che stimola l’azione di aziende e progettisti a livello globale. Ogni anno le industrie producono milioni di tonnellate di imballaggi destinati a diventare rifiuto appena dopo l’utilizzo: packaging, cannucce, bicchieri, buste, sacchetti di plastica.
Il design, grazie ad un approccio multidisciplinare (designer, biologi ed altri esperti nel settore) cerca nuove vie di produzione sostenibili per ridurre l’impatto ambientale che essa comporta.
La designer italiana Emma Sicher, nel suo progetto From Peel to Peel si avvale di cellulosa microbica per creare un materiale ottenuto dalla fermentazione di batteri e lieviti con gli avanzi dei rifiuti alimentari come frutta e verdura, sperimentando forme, colori e varie applicazioni.
Il problema che Sicher ha cercato di risolvere attraverso questo processo di ricerca sperimentale, è stato quello delle confezioni usa e getta tendenzialmente realizzate in PVC o comunque materiali plastici di origine fossile (es: petrolio), creando un materiale bioplastico che possiede le stesse caratteristiche di resistenza delle tradizionali plastiche in commercio. Il materiale Sicher è ideale per contenere cibi secchi come farina, zucchero, pasta, riso, foglie di tè e frutta secca.
Altro problema che il design cerca di risolvere attraverso gli imballaggi sostenibili è quello dei packaging e dei sacchetti in plastica usa e getta monouso dei fast food. Priestman Goode, una società di consulenza di design in Regno Unito, crea imballaggi riutilizzabili per fast food provenienti da gusci di fave, cacao, micelio e buccia di ananas.
L’idea principale del progetto è quella che il ristorante “presti” al consumatore l’imballaggio che porterà con sé, pagando una piccola tassa che sarà rimborsata al momento della restituzione dello stesso. In questo modo l’imballaggio è riutilizzato all’infinito, oltre ad essere sostenibile per l’utilizzo dei materiali che spesso comprendono scarti di produzione che sono destinati a diventare rifiuto. Questo è, dunque, un altro aspetto interessante della produzione contemporanea che cerca di dare vita ai materiali di scarto alimentare. L’imballaggio di Priestman Goode è impilabile: ogni involucro diventa il coperchio dell’altro eliminando la necessità di avere coperchi per ogni piccolo contenitore.
Priestman Goode per la mostra al Design Museum di Londra dal titolo: ”Get On board: Reduce” sul riutilizzo, ha ripensato e ridisegnato i prodotti di servizio in cabina, usa e getta delle compagnie aeree.
Il loro obiettivo è stato quello di risolvere un problema di rilevante importanza: in ogni viaggio a lunga durata sul volo, vengono prodotti e consumati circa 500 grammi di rifiuti di plastica monouso che equivalgono a circa 5,7 milioni di tonnellate di rifiuti globali ogni anno.
Il risultato è stato un packaging realizzato con materiali commestibili e biodegradabili. Con i fondi di caffè (rifiuto organico e scarto di produzione) e bucce mescolate con un legante per lignina è stato realizzato il vassoio; il legno di cocco è stato pensato per realizzare cucchiaio e forchetta; la tazza invece è stata ideata con bucce di riso mescolate con un legante di acido polilattico, il rivestimento della tazza è stato pensato a base di alghe. Infine, per quanto riguarda i piccoli involucri per contenere le salse, lo studio ha progettato delle capsule a base di alghe solubili.
Anche KFC, la grande catena di ristoranti specializzata in pollo fritto e conosciuta in tutto il mondo, si impegna a ridurre il consumo di plastica realizzando dei packaging commestibili.
In collaborazione con gli scienziati dell’azienda The Robin Company, ha realizzato la sua tazzina da caffè con biscotti che sono avvolti in un rivestimento di zucchero e uno strato di cioccolato bianco resistente al calore che può essere mangiata una volta finito il caffè, eliminando completamente il rifiuto di plastica; e anche quelli per gli hamburger di pollo fatti di carta di riso che possono essere mangiati.
Riflessioni conclusive
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Come possiamo notare molte sono le possibilità di realizzazione delle bio-plastiche, dalle bucce d’arancia, di pomodoro al tè kombucha dal quale si ricava lo Scooby un materiale che viene studiato anche da makegrowlab per realizzare imballaggi sostenibili.
Al FabLab | Medaarch a Cava dè Tirreni in Campania, viene attualmente prodotto e sperimentato un biofilm di nanocellulosa, materiale ottenuto in modo del tutto naturale a zero impatto ambientale per produrre e sperimentare tessuti e tipi di pelle.
Oltre ai progetti sopra descritti, un aspetto molto interessante sul quale si potrebbe fare una riflessione e previsione, anche futura, per l’economia e innovazione sostenibile del nostro paese, riguarda la realizzazione di bio-plastiche attraverso le colture territoriali.
Facciamo adesso l’esempio del PLA (acidopolilattico), un materiale che viene realizzato dalla trasformazione di mais, barbabietola, canna da zucchero e altri materiali naturali che rientrano nella categoria delle fonti rinnovabili.
Esso è un materiale versatile e che, per fortuna, può essere realizzato in base alle colture di riferimento di ogni stato e regione. Ad esempio, il PLA viene prodotto in Brasile dalla canna da zucchero, in Nord America dall’amido di Mais o dalla colza in Europa.
E se pensassimo ad uno scenario locale in cui ogni regione, stato o paese avesse una propria coltura di riferimento attraverso la quale potrebbe creare bio-plastiche con gli scarti di produzione/coltivazione?
Sarebbe una prospettiva futura molto interessante in termini di sostenibilità ambientale e di economia circolare.
Le Nazioni Unite hanno redatto un’agenda, chiamata Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile con 12 obiettivi da raggiungere entro il 2030.
Tra questi obiettivi c’è il punto 12 che sul tema del Cibo dice: 1,3 miliardi di tonnellate di cibo vanno sprecate ogni anno, mentre quasi 1 miliardo di persone soffre di denutrizione e un altro miliardo soffre la fame. Tra i traguardi da raggiungere c’è quello descritto nel punto 12.5 “Entro il 2030, ridurre in modo sostanziale la produzione di rifiuti attraverso la prevenzione ,la riduzione, il riciclo e il riutilizzo”. Giovani, “Coltivate” il futuro del nostro paese, pensateci, il futuro è nelle vostre mani.
Simona Sbriglia, Product Designer