A cura di Iolanda Natale
Un’altra edizione del noto festival canoro, emblema da ormai 72 anni della musica leggera (anzi, leggerissima) italiana, è giunta al termine, tenendosi come sempre in bilico tra polemiche schiaccianti e lodi incontrastate. Il tema forse più divisivo di questa edizione è in aperta contraddizione col sentimento divisivo stesso: ovvero, l’inclusività.
Una variegata rappresentanza di artisti ha calcato il palco di Sanremo, dedicandosi (a modo proprio) all’intrattenimento del grande pubblico. Se abbiano sortito o meno quest’effetto, è dipeso esclusivamente dai gusti artistici personali.
Ciò che certamente hanno fatto, che sia piaciuto o meno, è stato esprimere sé stessi in tutti i colori e le forme desiderassero. Abbiamo potuto osservare abiti scintillanti, come da vera tradizione sanremese, e abbinamenti inusuali, prodotti di mode derivanti dalle esigenze dettate da nuove forme di libertà personali e d’espressione, i cui principali interpreti sono stati gli appartenenti alla cosiddetta generazione Z. Una generazione che l’attenta guida di Amadeus ha saputo comunque ben amalgamare alla generazione boomer, riuscendo da un lato ad evidenziare le affinità tra le due e dall’altro a distogliere l’attenzione invece dalle discrepanze.
Tra i vaneggiamenti di chi riteneva che pubblicamente, soprattutto davanti ai sensibili occhi di presunti pargoli, si dovesse mostrare solo ciò che è convenzionale in senso stretto, e chi invece era pronto a giudicare il tutto non sufficientemente coraggioso, c’è stata poi sempre lei: la musica.
In molti scagliano la generica accusa del “riguardo a Sanremo si parla di tutto fuorché di musica!” lamentando una disattenzione, se così vogliamo definirla, che non dovrebbe essere indirizzata ad altri se non agli stessi accusatori, vittime e carnefici di una curiosità morbosa (la stessa che probabilmente ci spinge ad interessarci delle pruderie altrui).
Ma a Sanremo la musica la fanno gli artisti. Ci piaccia o meno, anche ciò che l’artista sceglie di portare con sé sul palco durante la sua performance è musica. Voler definire musica il semplice testo accompagnato da un motivetto starebbe a dire banalizzarne il significato stesso.
Non sarebbe stato lo stesso se Bravi non avesse accompagnato la sua splendida “Inverno dei fiori” da un look che ne riflettesse i più intimi accordi, o se Emma non avesse sfoggiato tutto il simbolismo riconducibile alla battaglia femminista in cui lei fortemente crede e per la quale si adopera.
Dal femminismo di Emma all’unicità di Drusilla Foer, dalla coerenza di Sabrina Ferilli alle proteste contro il greenwashing di Cosmo, dai look senza genere dei giovani artisti ai cartelli dei PTN (Pinguini Tattici Nucleari) che ricordavano le difficoltà di 2 anni senza concerti, gli esempi si sprecano.
Questo festival per qualcuno è stato inclusivo, per qualcun altro non lo è stato. Al netto di un bilancio possiamo ritenere che, se oggi siamo qui a riflettere sull’inclusività di Sanremo o meno, il suo innegabile pregio è stato quello di aver smosso le acque e contribuito alla discussione su nuovi scenari della realtà.